(mynewsroom.it) Il Kazakistan, con i suoi musei del compromesso e il dark tourism crescente, non sta solo raccontando la storia del gulag ma la storia di un Paese che cerca di sopravvivere al proprio passato senza mai smettere di averne paura.
Nell’immensa steppa kazaka, dove il vento soffia tra le rovine di vecchi campi di lavoro forzato, si sta consumando una battaglia silenziosa: quella tra il dovere della memoria e la prudenza politica. Il Kazakistan, ex repubblica sovietica e per decenni soprannominata “la prigione dell’URSS”, sta diventando una meta sempre più frequentata non solo da amanti della natura nomade, ma anche da un turismo particolare: il dark tourism, il turismo oscuro, che cerca nei luoghi della sofferenza umana le tracce di una storia che molti vorrebbero dimenticare.
Tra il 1920 e il 1960, milioni di persone – oppositori politici, intellettuali, artisti, famiglie intere – furono deportati nei gulag disseminati in tutto il territorio kazako. Lavoravano nelle miniere, nelle fattorie collettive, nei cantieri, in condizioni disumane. Il numero esatto delle vittime è sconosciuto, ma si parla di milioni di morti. Oggi, più di settant’anni dopo la morte di Stalin, i resti di questo sistema repressivo emergono timidamente dal passato, trasformati in musei, percorsi commemorativi, attrazioni per un turismo che cerca emozioni forti. Ma ciò che si mostra è spesso solo una parte della verità.

I musei del compromesso
Solo due campi di lavoro sono stati ufficialmente trasformati in musei: Karlag, a Dolinka, nella regione di Karaganda, e Alzhir, vicino alla capitale Astana. Karlag, un tempo il più grande campo dell’Unione Sovietica – grande quanto il Belgio – ospita oggi il Museo della Memoria delle vittime delle repressioni politiche. Alzhir, invece, era un campo femminile dove furono internate 18.000 donne, accusate non per i loro crimini, ma per aver sposato “traditori della patria”.
Questi luoghi, valutati 7/10 sul “darkometer” del sito dark-tourism.com, sono descritti come “scuri, forse troppo per alcune persone”. Le visite guidate conducono i turisti attraverso celle di tortura spruzzate di sangue finto, stanze con battiti cardiaci in sottofondo, statue di cera emaciate.
Ma il vero problema non è l’allestimento, bensì ciò che non si dice. La narrazione ufficiale, costruita soprattutto durante il lungo regno di Nursultan Nazarbayev, presenta una memoria selettiva. Si insiste sulla sofferenza condivisa, su atti di compassione dei kazaki verso i deportati – come il formaggio lanciato oltre il filo spinato – e si celebra un’identità nazionale unita dalla tragedia. Tuttavia, solo l’1% dei detenuti ad Alzhir era di etnia kazaka: la maggior parte erano russi, ucraini, baltici. “Insistiamo sulla sofferenza nazionale, anche quando non è del tutto nazionale”, commenta un ricercatore locale.

Una memoria politica e incompleta
Il presidente Kassym-Jomart Tokayev, dal 2019, ha segnato una svolta: ha istituito una commissione per la riabilitazione delle vittime e, il 31 maggio 2023, ha indicato esplicitamente l’Unione Sovietica come responsabile delle repressioni – un passo senza precedenti. Ma ha anche elogiato gli “aspetti positivi” del sistema sovietico: sviluppo industriale, progresso educativo. Una posizione ambigua, che condanna ma non rinnega.
E soprattutto, tace. Il ruolo dei kazaki nella repressione – funzionari, informatori, collaboratori – non viene mai affrontato. Non esiste una lustrazione, come in altri ex Paesi comunisti. Molti archivi sono ancora classificati, e gli storici denunciano che “a chi studia lo stalinismo è negato l’ingresso in Russia o è ostacolato sul posto”. Con l’invasione dell’Ucraina, l’accesso agli archivi russi è diventato ancora più difficile.