Carrère racconta il G7

(L’Obs) A metà giugno, mentre Israele attaccava l’Iran, Emmanuel Carrère, autore del libro “L’Avversario”, ha seguito Emmanuel Macron dietro le quinte del G7, il vertice dei paesi più ricchi, tenutosi in Canada.

Ai piedi di Hans Egede

Nuuk, capitale della Groenlandia, appare come un piccolo groviglio di costruzioni modulari arancioni e palazzine grigie posate su una spiaggia rocciosa, a ridosso dell’oceano. Nessun albero, ma una collina sulla cui cima sorge la statua di Hans Egede, il missionario danese che evangelizzò la più grande isola del mondo nel XVIII secolo, e che per questo motivo è minacciato di rimozione da parte degli attivisti inuit anticolonialisti. È ai suoi piedi che attendo il ritorno degli elicotteri che riportano dal loro giro sul ghiaccio il primo ministro groenlandese, Jens-Frederik Nielsen, la prima ministra danese, Mette Frederiksen (la Groenlandia è un territorio autonomo della Danimarca), e il nostro presidente della Repubblica, Emmanuel Macron – designato lungo tutto questo viaggio come il « PR ».

Speravo di salire anch’io su uno di questi elicotteri, e credevo di avercela fatta quando, mentre la delegazione si divideva tra gli eletti che lo accompagnavano in volo e gli altri, mi lanciò uno di quei compliciti occhiolini che rivolge abitualmente, e in modo così sorprendente, alle persone che entrano nel suo campo visivo. Mi sono ricreduto: ci sono molte posti su un aereo, pochissimi su un elicottero, e si trattava di un evento PR+3, ovvero il PR più altre tre persone, al di fuori della mia portata. In qualità di scrittore embedded nella delegazione francese al G7 – il vertice dei paesi più ricchi e in teoria più democratici, che si tiene quest’anno in Canada –, comincio ad avere le mie possibilità a partire da PR+6 o 7: non è male.

Dal mio punto di osservazione, vedo una piccola folla – grande per gli standard della Groenlandia – radunarsi sul porto intorno ai tre leggii che raggiungono poco dopo i tre capi di Stato. Precisiamo il contesto. Nella miriade travolgente di decreti, annunci, promesse folli e minacce deliranti mirate, secondo l’espressione dell’ideologo MAGA Steve Bannon, a « inondare la zona » – ovvero fare in modo che nessun cittadino della Terra sappia più a quale appiglio psichico aggrapparsi –, Donald Trump, nel suo discorso di insediamento, ha dichiarato che « gli Stati Uniti si considerano nuovamente un paese che estende il proprio territorio e porta la propria bandiera verso nuovi e magnifici orizzonti ». (Questo paese, nel contempo, dovrebbe ritirarsi da ogni impegno estero.) Tra questi nuovi e magnifici orizzonti figurano in primo luogo il Canada, che secondo Trump dovrebbe diventare il 51esimo Stato americano, poi il Canale di Panama, infine la Groenlandia. La sua annessione, sempre secondo Trump, « ha buone possibilità di realizzarsi senza uso della forza militare – ma tutte le opzioni, ha aggiunto per essere chiaro, sono sul tavolo ».

Poco dopo queste dichiarazioni, è venuta a J. D. Vance, il vicepresidente, la fantasia di ispezionare le sue future colonie groenlandesi e di assistere con sua moglie, Usha, a una tradizionale gara di slitte trainate dai cani, ma gli è stata predetta un’accoglienza così gelida (qualcosa come l’intera popolazione riunita per voltargli le spalle) che si è accontentato di visitare una base militare, altrettanto gelida.

In queste condizioni, è, da parte di Macron, ciò che i comunicatori politici chiamano un « gesto forte » fermarsi qualche ora a Nuuk sulla strada per il G7 e rivolgersi alle duecento o trecento persone venute ad ascoltarlo con quella voce ora vibrante ora seducente, che gioca con pause sapientemente calibrate, alla quale i groenlandesi non si sono ancora stancati. L’odio nei confronti di Macron è in Francia uno sport nazionale – che personalmente non pratico. Qui, invece, lo adorano. Non sapevano necessariamente chi fosse dieci giorni prima, ma oggi Nuuk sembra un focolaio di ferventi macronisti. La sua presenza è un balsamo e l’entusiasmo è al culmine quando, dopo un sonoro « Qujonaq! » (« grazie » in groenlandese), dichiara, innanzitutto, che la Groenlandia non è né in vendita né da prendere (acclamazioni calorose, è come se avesse detto: « Ich bin ein Groelander »), in secondo luogo, che in segno di solidarietà indissolubile la Francia aprirà un consolato a Nuuk (acclamazioni più modeste), infine, che il suo giro in elicottero con i due primi ministri gli ha permesso di osservare da vicino gli effetti del riscaldamento climatico – a cui la Groenlandia, i cui abitanti vivono tutti sulla stretta fascia costiera di un gigantesco ghiacciaio che si sta sciogliendo a velocità allarmante, è particolarmente esposta. Nella successione dei brevi discorsi dei tre capi di Stato, era una gara a chi pronunciava più volte la parola « clima » – cinque volte per Macron, ma non avevo ancora misurato quanto queste dichiarazioni apparentemente banali fossero provocatorie. Al termine dei discorsi, una giornalista ha chiesto al nostro PR fino a che punto sarebbe andata la sua solidarietà se Trump avesse invaso la Groenlandia, e lui ha risposto con una lieve sfumatura di impazienza che non gli piaceva perdere tempo a speculare su questioni che, per il momento, non si ponevano.

Sull’aereo

Quasi sette anni prima, nel settembre 2017, viaggiavo già su questo aereo con il PR, di cui stavo scrivendo il ritratto per il « Guardian ». Era l’inizio del suo primo mandato, tutto sembrava andargli bene. Andavamo a Saint-Martin, territorio d’oltremare colpito da un uragano, poi ad Atene, dove pronunciò un grande discorso sulla civiltà europea. Quei tempi, con il senno di poi, sembrano quasi spensierati se si considera che il nostro viaggio odierno si svolge sullo sfondo della guerra in Ucraina, della distruzione sistematica di Gaza, del disastro ecologico ormai irreversibile, a cui si aggiungono da due giorni i bombardamenti israeliani sull’Iran, che alcuni considerano un preludio alla Terza Guerra Mondiale – e mi chiedo se, tra sette anni, non ripenseremo con nostalgia alle nostre calamità attuali, tanto il caos sembra ormai divenuto insieme irreparabile ed esponenziale. Ho ritrovato, nei miei appunti di allora, e ho sottoposto a Macron ciò che mi aveva detto: « Se non fossimo in un momento tragico della nostra storia, non sarei mai stato eletto. Non sono fatto per i tempi tranquilli. Il mio predecessore [il gioviale François Hollande] lo era. Io, sono fatto per le tempeste ». « Beh, eccoci qua », commenta lui sorridendo. Sul piano interno, bisogna riconoscere che non ha fatto nulla per calmare la tempesta decidendo, un anno fa, di sciogliere l’Assemblea nazionale – uno shock politico che vedeva certamente come un rimedio drastico alla sua impopolarità, senza precedenti nella storia della Quinta Repubblica, ma che ha lasciato il paese, se non completamente ingovernabile, ancora più difficile da governare del solito, e in ogni caso più da lui. Essendo il PR il PR, poco incline all’autocritica, resta convinto che la storia gli darà ragione. Al massimo ha riconosciuto, negli ultimi auguri di Capodanno, che la sua decisione non era stata capita e che in questo malinteso aveva una parte di responsabilità – non ha detto a chi spettava l’altra.

Quali che siano le difficoltà interne, tuttavia, la politica estera rimane tradizionalmente l’appannaggio dei presidenti francesi, e si può dire che, bruciato sul piano nazionale, Macron fiorisca a livello internazionale. « Buona mossa di carriera », avrebbe detto Gore Vidal apprendendo la morte di Truman Capote. Allo stesso modo, il disordine del mondo si rivela per Macron un eccezionale acceleratore di carriera – sapendo che in testa all’Europa c’è un posto da prendere. È così, in ogni caso, che lui lo vede e, di fatto, sembra in gran forma. Immaginavo che il mio secondo ritratto di lui contrastasse vivamente con il primo, caduta dell’Impero romano dopo il suo apogeo, tanto più che alcuni me lo avevano descritto ormai cupo, tormentato, abbandonato da tutti, errante, con le unghie mangiucchiate fino alla carne, nei corridoi di un palazzo presidenziale dove non si decide più nulla.

Non ho osservato nulla di così shakespeariano e l’ho trovato poco cambiato, a parte il fatto che si è ovviamente messo a fare pesi e che, stretto in una maglietta nera – il suo abbigliamento sull’aereo –, mostra bicipiti piuttosto impressionanti, e non si limita a mostrarli: li palpa, con visibile soddisfazione. Altrimenti, sempre calmo, rapido, disponibile, gli occhi azzurri fissi nei vostri, la mano che trattiene la vostra e non ve la restituisce che con riluttanza, e voglio bene credere che in realtà (sono sempre sorpreso di sentirlo usare questa locuzione da adolescente: « in realtà ») sia arrogante, egocentrico e non si interessi a nessuno, in superficie almeno (il che, secondo me, non vuol dire falso), si mostra sempre altrettanto attento, sempre presente al suo interlocutore, chiunque esso sia, e sempre in grado di singolarizzarlo. È una qualità da uomo politico, lo so, farvi sentire che contate soltanto voi ai suoi occhi, che è salito su questo aereo solo per gustare appieno la gioia di esserci con voi e che vi conosce meglio di quanto voi conosciate voi stessi, ma spinge questa qualità molto lontano, e tutti quelli che hanno avuto a che fare con lui possono raccontare un aneddoto che la illustra in modo quasi soprannaturale. Eccovi il mio.

L’aereo presidenziale è diviso in quattro sezioni. All’avant, la suite del PR, a cui ha accesso solo lui. Poi, un salotto dove, intorno a un grande tavolo ovale, si può essere una dozzina su invito per una sessione di lavoro, un drink o anche un pasto leggero – lui sembra mangiare solo noci pecan. Viene poi una cabina business per il primo cerchio, PR+18, infine la parte posteriore dell’aereo, che ospita la sicurezza, la logistica, i giornalisti. Per quanto mi riguarda, ero nella cabina PR+18 e, durante questi tre giorni di viaggio, sono stato invitato tre volte al tavolo ovale, accanto al PR, che sembrava entusiasta di parlare di film francesi degli anni ’70. Non la Nouvelle Vague, non Godard, non Truffaut, no, affatto, ma film comici o polizieschi di registi popolari, patrimoniali, trasmessi in televisione all’infinito, come Henri Verneuil, Georges Lautner o Claude Lelouch: non tutti eccellenti, ammette, i Lelouch, ma cosa non si perdonerebbe a chi ha realizzato « L’avventura è l’avventura », simpatico film di culto, di cui recita i dialoghi con la stessa sicurezza di versi di Patrice de La Tour du Pin o di « la Diane française », di Aragon – la sua lettura in questi giorni?

Arriva un momento, in questo assalto di erudizione cinematografica, in cui si affronta l’adattamento de « Il mago del Cremlino », il romanzo di Giuliano da Empoli sull’eminente grigia di Putin, Vladislav Surkov, di cui ho scritto la sceneggiatura con e per il regista Olivier Assayas. È Jude Law a interpretare Putin, tiro fuori il telefono per mostrare la sua foto nel ruolo al PR. « Niente male », dice restituendomi subito il telefono, e ho per un istante l’impressione che gli dia fastidio che sia Jude Law a interpretare Putin invece di interpretare lui, Macron. Ma perché, chiede, sono io che ho scritto la sceneggiatura? Perché non Giuliano? (Dice « Giuliano ».) Rispondo che l’autore di un libro non è necessariamente il più adatto a adattarlo, gli manca distanza, io stesso non collaboro agli adattamenti dei miei libri. Alza un sopracciglio: « Tuttavia, hai adattato “La classe di neve” con Claude Miller? » Qui, chiedo un po’ di attenzione. « La classe di neve », tratto da un romanzo che ho scritto, risale a quasi trent’anni fa. È a mio avviso un bel film ma non ha avuto alcun successo, né critico né commerciale.

Se si facesse un sondaggio tra dieci persone del mio entourage più stretto, una o due forse l’avrebbero visto e, a parte il mio agente che ha redatto il contratto, nessuna sarebbe in grado di dire se ho collaborato o no alla sceneggiatura. « Non c’è di che meravigliarsi », mi dicono quando racconto questa storia: « Gli fanno dei dossier, ecco tutto. » No. O allora, se questa è la spiegazione, è ancora meno verosimile del fatto stesso. Supponendo che Macron abbia trovato il tempo di rivedere un dossier su di me, sarebbe stato necessario che questo dossier avesse quindici pagine per includere un’informazione del genere. Chiedo, colpito: « Ma come fai a saperlo? » Lui: « Dormo poco e bene, questo mi lascia del tempo per vedere film. »

Lo sherpa

Derivato dall’alpinismo himalayano, dove indica i portatori, il termine si è imposto nei vertici internazionali: lo sherpa accompagna il capo di Stato e, in anticipo, gli prepara il terreno. Dal 2019, Emmanuel Bonne è lo sherpa di Macron e capo della cellula diplomatica dell’Eliseo – il che fa di lui una figura meno pubblica ma molto più importante dei vari ministri degli Affari esteri che si succedono da un governo all’altro (sono io a dirlo, lui ovviamente non lo direbbe mai). Diplomatico di carriera, Bonne è un cinquantenne elegante, con una bella voce grave e che, pur non derogando allo stile diretto e cameratesco in uso intorno al PR, dice di applicare nei rapporti con lui la massima dei gesuiti, « perinde ac cadaver », obbedire « come un cadavere ».

Nella seconda parte del viaggio, tra Nuuk e Calgary, nel cuore delle Montagne Rocciose canadesi, gli ho chiesto di spiegarmi le sfide del vertice ed ecco ciò che ho annotato. Quando Valéry Giscard d’Estaing creò il G7, allora il G6, nel 1975, i paesi che ne facevano parte (Stati Uniti, Francia, Regno Unito, Germania, Italia, Giappone) rappresentavano il 75% del PIL mondiale. Oggi: 35%. Sono ampiamente concorrenti e minacciati di obsolescenza dai cosiddetti paesi emergenti, che hanno fatto meglio che emergere, in testa i BRICS [Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica, ndr] . « Eravamo », riassume Bonne, « i “chairman del board”, e non ne siamo neanche più gli azionisti di maggioranza. » È tanto più vitale, per non scomparire del tutto dal panorama, trovare una soluzione o almeno accordarsi su una posizione riguardo a uno dei grandi problemi del pianeta: l’Ucraina, il Medio Oriente, l’ambiente, i dazi doganali, poco importa cosa ma qualcosa, gli elefanti nella stanza non mancano.

L’obiettivo è produrre un comunicato che non abbia alcun valore vincolante ma esprima semplicemente una volontà, un orientamento, obiettivi condivisi, ciò non dovrebbe essere troppo difficile, tuttavia lo è diventato da Trump 2, l’esempio più eclatante del fenomeno riguardando tutto ciò che tocca al clima. Fino a ora, dire che il riscaldamento climatico è una minaccia maggiore e che è una priorità assoluta fare tutto il possibile per arrestarlo, era una petizione di principio altrettanto poco divisiva che dire di essere contro la guerra, per la pace, per ridurre le disuguaglianze, ecc. Detto ciò, si faceva o non si faceva ma non costava nulla proclamarlo. È finita. Il padrone del mondo ritiene che il clima non sia un problema, quindi non si tratta di inserirlo all’ordine del giorno, neanche come pia intenzione. La sola parola « clima » è diventata una sorta di C-word, come si parlava una volta di N-word – « N » per « nigger » o « negro »: un tabù assoluto, allo stesso modo della parola « inclusivo » o dell’idea, una provocazione nel mondo trumpiano, che argomenti scientificamente dimostrati possano e debbano pesare nel dibattito politico. È una barzelletta, il dibattito politico, e gli argomenti scientificamente dimostrati anche.

La scienza non è oggettiva, la scienza sbaglia, la scienza è woke, abbasso la scienza. Consapevoli che la margine di manovra è stretto, i canadesi, che quest’anno ospitano il G7, hanno deciso fin dall’inizio che non si sarebbe prodotto un comunicato comune, solo una sorta di riassunto neutro, ogni parola pesata al setaccio e per quanto possibile svuotata di ogni significato. Già posti nell’obbligo crudele di accogliere come ospite d’onore qualcuno che ha chiaramente annunciato la sua intenzione di sottometterli, sono inoltre traumatizzati dal ricordo del precedente G7 tenutosi da loro, sette anni fa, e andato peggio che mai. Trump 1 si era arrabbiato ed era partito prima della fine rifiutando di firmare il comunicato e accusando il suo ospite, Justin Trudeau, di essere « debole e disonesto ». Paralizzati dal timore che un simile incidente si ripeta, i canadesi si apprestano a strisciare e, in generale, è diventato per i sei membri del club degli ex padroni del mondo un obiettivo in sé evitare la rottura con il settimo, limitare i danni, concentrarsi su temi che non infastidiscano troppo – il massimo dell’audacia essendo stato iscrivere tra gli argomenti all’ordine del giorno gli incendi boschivi, un problema certamente preoccupante ma di cui ci si stupisce un po’ a vederlo trattato a livello di capi di Stato.

Allo stesso tempo, bisogna mostrare che esistono e, pur inchinandosi, gonfiare il petto. Capisco meglio perché il PR, a Nuuk, abbia martellato con tanta insistenza la parola « clima ». L’esercizio, riassume Bonne durante una collazione improvvisata al tavolo ovale (ravanelli, piccoli sandwich al salmone e cetriolo, noci pecan a volontà), consiste nel « farsi sentire senza dare l’impressione di fare il verso a Trump ». Osservazione ragionevole, alla quale Macron reagisce lasciando cadere, con il tono più spensierato, questa notizia bomba: « L’ho chiamato, ieri mattina. Gli ho detto che andavamo in Groenlandia. – E? – E lui ha detto: “Super! Ottima idea. Digli che gli voglio solo bene.” » Anche se l’inglese non distingue tra « tu » e « lei », Macron nei suoi rapporti con Trump, o piuttosto nel racconto che fa dei suoi rapporti con Trump, ha optato per il tu, e mette tutto il suo impegno a imporsi come capo dell’Europa di fronte a Trump, e anche come colui che conosce bene Trump, che può fare osservazioni acute e inattese sul suo carattere (« Non è per niente suscettibile, dice, e purché si facciano affari non ha affatto ego »), insomma colui che sa come trattare con la bestia. Il che non è falso, e a cui si aggiunge che, anche se è ancora giovane (47 anni), è in termini di longevità presidenziale il decano dei capi di Stato riuniti al G7, e fa parte del club molto chiuso di quelli che hanno fatto due mandati – un po’ come i registi che hanno vinto due palme d’oro al Festival di Cannes.

In un suo momento di bonomia, Trump stesso, racconta Bonne, gli avrebbe detto dandogli una pacca sulla spalla: « Vedrai, tu e io, ne faremo un terzo. » (La Costituzione francese, come la Costituzione russa, vieta tre mandati presidenziali consecutivi, ma si può candidarsi al terzo a condizione di aver passato il turno una volta: è ciò che ha fatto Putin lasciando il potere per cinque anni a un Medvedev strettamente sorvegliato, e Macron potrebbe teoricamente fare lo stesso presentandosi nel 2032. D’altra parte, non è previsto dalla Costituzione americana, ma Trump ha già avvertito che non si priverà così facilmente il mondo delle sue luci, che una Costituzione non è scolpita nel marmo e che giuristi patriottici stanno già lavorando per trovare una soluzione.)

Il Rattino

Quando le sue figlie erano piccole, lo scrittore di fantascienza Philip K. Dick aveva inventato per loro una variante del Monopoli, mirata a rendere meno noiosi gli eterni acquisti di immobili di cui andavano matte. Il banchiere, in questa variante, si chiama il Rattino e, invece di limitarsi al ruolo di arbitro, detiene il potere discrezionale di modificare le regole del gioco. Quando vuole, come vuole, senza che nessuno abbia il diritto di chiedergli ragione di questi decreti, senza che lo impegnino in alcun modo per il seguito. È la tabula rasa perpetua, la dittatura allo stato puro, la negazione dell’idea di diritto. Perché una partita abbia successo, i giocatori farebbero bene a scegliere come Rattino il più malvagio e il più inventivo tra loro. Un Rattino degno di questo nome deve saper dosare le torture che infligge ai giocatori, lasciar loro supporre che un piano guidi le sue decisioni arbitrarie e, tra crudeli delusioni e incoraggiamenti fuorvianti, strapparli alla loro pratica abituale del Monopoli per, senza che l’interesse cali, gettarli nel caos. Quando mi sono svegliato nella mia stanza del Lodge Canmore, a Kananaskis – un minuscolo paesino dell’Alberta, amato dagli escursionisti –, erano le 4 del mattino e ero devastato dal fuso orario. Macron, che si era coricato più tardi di tutta la delegazione perché, sceso dall’aereo, aveva cenato con il primo ministro canadese, era già, lui, a fare jogging ai piedi delle montagne.

Alle 8 del mattino, dopo aver superato diversi posti di controllo su una strada di montagna, in un paesaggio splendido, noi, i membri PR+6 e oltre della delegazione, abbiamo raggiunto il grandissimo hotel totalmente isolato – che ricorda l’Overlook di « Shining » – dove si svolge il vertice propriamente detto, e ho capito che ero venuto fin qui per assistere a una spettacolare partita di Rattino. Abito scuro e cravatta per gli uomini (largamente maggioritari), tailleur rigoroso per le donne, siamo circa 1500 a percorrere incessantemente, da un salone all’altro dell’hotel, i corridoi tappezzati di una moquette anch’essa importata dall’hotel Overlook – battuta di un fotografo con cui mi sono fatto amico: « Immagina, le porte dell’ascensore si aprono e vedi uscire “due” Trump, gemelli. »

Si corre molto, si aspetta anche molto, il gioco consistendo per il piccolo pesce come me aggirare i vari agenti di sicurezza e superare porte che, teoricamente, mi sono chiuse. È così che, aggrappandomi letteralmente a Emmanuel Bonne, ho avuto accesso al grande salone (PR+5) dove i sei capi di Stato normali aspettavano che il settimo scendesse dal suo Olimpo. In realtà, i sei erano solo cinque: mancava anche Merz, il cancelliere tedesco. Non si poteva cominciare senza di lui, ancora meno senza Trump, quindi si chiacchierava, le cortesie d’uso si trasformavano in un chiacchiericcio sempre più sconnesso. Carney, il primo ministro canadese, sembrava ansioso, l’ospite che ripete con un po’ troppa insistenza che tutto va bene, molto bene.

Senza fare molti sforzi per fingere interesse, Ishiba, il giapponese, ascoltava Meloni, la presidente del Consiglio italiano, che gli parlava della passione di sua figlia per i manga. Mi sono chiesto se, di fronte ai primi ministri australiano o spagnolo, avrebbe parlato della passione di sua figlia per il surf o la corrida. Non ne sono sicuro. So che Meloni è considerata di estrema destra e che non bisogna dirne bene, diciamo solo che questa piccola donna bionda stonava al G7 per una sorta di ruvidezza allegra e un dress code senza concessioni al grigiore: in mezzo ai tailleur rigorosi, il suo vestito azzurro chiaro, molto leggero, sembrava quasi un vestito da spiaggia. Passavano i minuti, sempre più lentamente, ci si chiedeva dove fosse finito Merz. Aveva improvvisamente avuto un attacco di panico? Preso la fuga? Il ritardo è durato una buona mezz’ora – molto per un evento previsto per durare esattamente trentasei ore.

Finalmente i due assenti sono apparsi, Merz longilineo e grigio, impantanato in un linguaggio del corpo tale da non sapere bene se fosse eletto o ostaggio, Trump esattamente conforme all’immagine – abito blu notte, cravatta rossa, viso arancione, corpo massiccio e testardo, che sorrideva praticamente mai. Due capi di Stato che iniziano a discutere a quattr’occhi prima dell’apertura ufficiale del vertice, mi ha detto Bonne all’orecchio, è totalmente contrario all’etichetta, una maleducazione aperta e deliberata, certamente non nelle maniere del povero Merz, un democristiano alla vecchia maniera, fragile e precario baluardo contro un’estrema destra tedesca già ufficialmente sostenuta dal vicepresidente Vance. Trump si era servito di lui per lanciare il solito messaggio: faccio quello che voglio.

Salto le formalità, i discorsi di benvenuto, il photocall, presto è iniziata la prima discussione plenaria a cui hanno diritto di assistere solo gli sherpas (PR+1) – ma avevo accesso alla sala di trasmissione, da cui si vede e si sente tutto come se si fosse seduti al tavolo. Trump, per cominciare, ha detto che tutte queste chiacchiere non avevano senso in assenza di Putin – escluso dal club da quel inetto di Obama dopo l’annessione della Crimea, nel 2014 – e l’ha ripetuto, sempre più malinconico, ogni volta che osavamo dirgli qualcosa. Macron ha fatto, contro ogni evidenza, come se andasse molto bene e ha vigorosamente sostenuto un accordo commerciale e doganale che sarebbe vantaggioso per tutti. Per sostenerlo, Meloni ha tirato fuori dalla borsa due carte del mondo, che ha mostrato a Trump dicendo: « Guarda, Donald [il tu è incerto, ma lo ha chiamato Donald], guarda: tutto questo, in blu, siamo noi, vent’anni fa, quando eravamo ancora i padroni. E questo, in rosso, è il commercio oggi, cioè soprattutto la Cina. Allora faremmo meglio a trovare un accordo tra noi, i blu, contro i rossi, perché la questione ora non è tanto chi facciamo entrare ma non farci buttare fuori. » Terminata la tirata, ha vigorosamente annuito, approvandosi da sola, e poiché la trovavo sempre più simpatica mi sono posto quest’altra domanda imbarazzante: se non fossi francese, se la vedessi da lontano, troverei simpatica anche Marine Le Pen?

Una cosa che si può dire di Meloni, in ogni caso, è che è la persona meno impassibile che ci sia: quando qualcosa la diverte, scoppia a ridere, quando qualcosa la annoia, alza gli occhi al cielo e sospira rumorosamente. Dopo un’ora e mezza, non si è quindi, come previsto, arrivati a nulla. Trump ha concesso un’uscita spiritosa dicendo a Starmer, l’inglese: « Dici di essere una democrazia, non è vero: hai un re. » Starmer ha riso, un po’ servilmente, sollevato come qualcuno su cui il fulmine è già caduto e a priori non ricadrà. Si sbagliava: poche ore dopo, mentre camminava davanti all’hotel accanto a Trump, questi ha lasciato cadere da un dossier alcuni fogli che si sono sparpagliati a terra e, poiché non faceva alcun gesto per raccoglierli, è stato Starmer che, dopo un attimo di esitazione, si è chinato e letteralmente inginocchiato ai piedi del padrone – immagine devastante che ovviamente ha fatto il giro del mondo.

Dopo, in piccoli salotti discreti, ci sono stati alcuni « bilat » – così si chiamano le discussioni bilaterali tra due capi di Stato. Ho assistito a quelle tra Macron e Starmer, poi tra Macron e Carney, il canadese: ne conservo pochi ricordi. Nel pomeriggio, Macron ha tenuto, all’aperto, una piccola conferenza stampa improvvisata durante la quale gli è stato chiesto se approvava i bombardamenti israeliani sull’Iran e la prospettiva di un cambio di regime a Teheran. Ha risposto che, per quanto detestabile sia il regime, le rivoluzioni imposte dall’esterno raramente danno buoni risultati, vedi l’Iraq, vedi la Libia. E cosa bisogna pensare, ha proseguito il giornalista, della partenza precipitosa del presidente Trump? La maggior parte di noi che assisteva a questo scambio non era a conoscenza di questa partenza precipitosa, la cui notizia ci ha lasciati esterrefatti. Lo stesso Macron è parso, per un istante, sconcertato. « Penso », ha detto, « che sia partito per negoziare un cessate il fuoco tra Iran e Israele. »

Se l’ha detto, a mio avviso, era per gentilmente scagionare Trump dall’accusa di capriccio e maleducazione, ma il fulmine non si è fatto attendere: arrivato poche ore dopo a Washington, Trump ha detto che non sarebbe affatto andato a negoziare un cessate il fuoco, ma « qualcosa di molto più grande » (il che era vero, poiché dopo tre giorni di esitazione l’America si è lanciata nella guerra al fianco di Israele), e che Emmanuel era un bravo ragazzo, un « nice guy », ma come al solito « in cerca di pubblicità » e « che non capisce nulla ». Cosa che l’interessato ha commentato, a sua volta, con un’alzata di spalle senza rancore: non la prima né l’ultima uscita di questo tipo, una battuta tra amici che litigano ma in fondo si vogliono bene. (Come disse Reagan quando gli fu annunciato, nel 1981, che Israele aveva bombardato un reattore nucleare iracheno: « Ragazzi saranno ragazzi ».)

Il gufo sulla maglietta

Il Rattino partito, la tensione cala. Si respira ma è indubbio che la partita perda interesse. I canadesi, che temevano soprattutto ciò che è accaduto, sembrano in fondo sollevati che sia accaduto. Anche se il secondo giorno è solo una mezza giornata, si trascina, tanto più crudele che la sua stella è Zelensky. Invitato al G7, ha fatto 5000 chilometri solo per vedere Trump, supplicare ancora una volta Trump di non abbandonare completamente l’Ucraina, e Trump ancora una volta lo umilia partendo poco prima che arrivi. Infine, è ciò che deve pensare, che lo umilia, io faccio parte di quelli che pensano che una scena atroce come quella avvenuta lo scorso febbraio nell’Oval Office non faccia che abbassare Trump e elevare Zelensky. Penso anche che, nonostante la differenza di stazza, il coraggio e la forza, anche fisica, siano da parte di Zelensky e che in un mondo ancora normale la sua reazione normale sarebbe, semplicemente, afferrare Trump per i risvolti del suo abito blu notte e schiacciargli la faccia con un bel colpo di testa.

Ma viviamo sotto il regno incontrastato del più malvagio dei Rattini, Zelensky combatte per il suo paese in guerra e l’eroismo per lui consiste nel mandar giù rospo dopo rospo e dire grazie quando viene insultato. Riuniti intorno a lui per l’ultima sessione plenaria, gli altri membri del G7 approfittano del fatto che Trump ha le spalle girate per essere, tutti, nei confronti di Zelensky, solo sollecitudine e comprensione. Quando Merz dice che l’approccio militare è in una situazione di stallo, che ora bisogna affinare le sanzioni, Zelensky risponde che sì, certo, è a favore delle sanzioni ma che, in attesa del loro effetto, deve resistere, lui, sul campo, che ha quindi bisogno di armi (« I need ammo », sempre) e tutti annuiscono: ti capiamo, Volodymyr, siamo con te, Volodymyr, e certo che è la Russia l’aggressore – una dichiarazione altrettanto provocatoria oggi quanto l’insistenza sulla catastrofe climatica: si sogna.

Con la sua solita petulanza, Meloni riassume il sentimento generale esclamando: « Non fatevi illusioni, amici. Non è il 20% del paese di Volodymyr che [Putin] vuole ingoiare, è il 100%, e non si fermerà lì. Vuole restaurare il suo Impero. Come tu [posa la mano sul braccio di Macron], volevi che metà del mondo fosse tuo perché prima erano colonie francesi, o tu [colpo di mento verso Starmer, ancora ansimante per l’incidente del giorno prima] il Commonwealth. E io, tanto per restare in tema, se ricostituissi l’Impero romano? » Macron sorride con indulgenza. Il mio amico fotografo, stamattina: « È un enorme trip per lui che Trump se ne sia andato. Ora, è lui il leader. » E di fatto, braccia incrociate, busto gettato all’indietro come per prendere maggiore distanza, il nostro PR si gode il ruolo di adulto nella stanza.

Sull’aereo del ritorno, poche ore dopo, ha di nuovo scambiato il suo abito con la sua maglietta nera, che noto è ornata da un piccolo gufo, e questo mi ricorda all’improvviso il discorso che aveva tenuto sette anni fa, un’eternità, ad Atene, sulla civiltà europea. Aveva citato la frase di Hegel sul « gufo di Minerva, che spicca il volo solo al calar della notte » – cioè, la saggezza che deve aspettare per dispiegarsi che la storia abbia finito di scriversi. È contento che abbia notato questo: certo che non è per caso sul suo maglietta, il piccolo gufo. Certo che – riprendendo il suo mantra, tanto deriso – vuole « allo stesso tempo » scrivere la storia e comprenderla. Ho annotato al volo, così rapidamente che ho un po’ di difficoltà a rileggermi, alcune delle cose che mi ha detto durante l’ultima cena al tavolo ovale, sull’aereo.

C’era troppo rumore per registrare, si parlava forte, si rideva forte, tutti (PR+20, direi) erano un po’ euforizzati dall’adrenalina, dalla stanchezza e perché non era andata così male – anche se, « in realtà », non portavamo a casa nulla: nessuna dichiarazione comune, neanche l’ombra di una road map per qualsiasi cosa. Ha parlato di bolle cognitive (« Certo che Trump vive in una bolla cognitiva, ma anche io, anche tu, bisogna almeno averne un po’ consapevolezza »), del vantaggio e del pericolo di pensare in “contrarien” – cioè di pensare il contrario di ciò che si pensa (« Mi sono iscritto, come un idiota, al profilo Twitter di Milei e mi accorgo quando leggo i suoi post che sono capace di essere d’accordo con lui »), dei doppi standard, la sua ossessione (« Se continuiamo così, tra Ucraina e Gaza, finiremo per perdere ciò che ci resta di credibilità »). Ma ciò che mi ha colpito di più è ciò che ha detto con una improvvisa veemenza sull’adolescenza – non so più come ci siamo arrivati: « Non sono mai stato adolescente. Non mi piacciono gli adolescenti. Non li capisco [è raro che Macron dica che non capisce qualcosa]. Mia moglie, lei, li capisce. » Ho pensato tra me: era adolescente quando si sono incontrati, e forse che se lei non avesse capito gli adolescenti non sarebbe oggi nel suo aereo da PR, con il suo piccolo gufo di Minerva sulla maglietta nera da culturista. E poi, la battuta finale, prima di andare a dormire – anche lui –, due o tre ore. Pare fosse una frase di sua nonna, quelli che gli stanno intorno la conoscono a memoria e l’aspettano con un misto di divertimento e apprensione, perché sotto la sua gentilezza si cela una minaccia: « Andiamo, tutti a letto. Passate la notte che meritate. »

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